02 Rabbia. Come sopravvivere.

Intangibile come la rabbia
“Rabbia. Come sopravvivere.” è il secondo episodio di questa serie di #autoresponder dedicati alle emozioni nel campo del lavoro, che sto raccogliendo in questo diario ribattezzato “intangibile”.
Il fine di questa serie di #autoresponder è mettere in discussione il proprio approccio al lavoro per riscoprirsi professionisti migliori.

Emozione primordiale. Di cui si dovrebbe vergognare.
La rabbia è un concentrato solido di stanchezza.
Di qualcosa che ci impedisce di essere ciò che vogliamo. Che annienta il nostro benessere. I nostri nervi saldi.
Che cannibalizza noi stessi in nome dell’autoconservazione.

Emozione primordiale. Di cui non ci si deve vergognare.
La rabbia è un concentrato solido di umanità.
Di qualcosa che ci ricorda i nostri limiti anche se non li accettiamo. Che esaspera il nostro disagio. I nostri sorrisi falsi. Sempre più simili a paresi.
Che spegne in noi stessi il diritto alla felicità in nome della società dell’affermazione personale a scapito di una possibile brezza collettiva.

”Sei arrabbiata?”.
La risposta che ci si aspetta sempre, per mantenere la creanza sul lavoro, è la negazione con una domanda pronta a fare da diversivo.
Sul lavoro non deve esistere la rabbia.
Eppure c’è. Non ne possiamo fare a meno. Perché la rabbia fa parte di noi.
Sempre.

E fa paura. Perché si autoalimenta cibandosi di se stessa. E di tutto ciò che potrebbe essere buono nella nostra quotidianità.
Peggio di una nidiata di blatte, la rabbia esiste. Resiste.
Perché la rabbia è adattiva. È il nostro modo di urlare silenziosamente al mondo che qualcosa non va.
E quando quel mondo è l’ufficio, la gestione della rabbia non è semplice.
Mettiamoci il cuore in pace.
Il lavoro non è e non sarà mai meritocratico (ciò non vuol dire però che dobbiamo smettere di lottare per questo).
Il lavoro difficilmente sarà una quotidiana fonte di gioia e felicità. Anche per coloro i quali dicono di aver fatto della propria passione un lavoro.
Il lavoro, più spesso di quanto crediamo, può rivelarsi una fonte di rabbia.
Se non lo è mai è perché in realtà di quel lavoro ci importa poco.

Gestire la rabbia a lavoro non è facile, perché per prima cosa dobbiamo ammetterne l’esistenza. E di essere deboli di fronte ad essa.
E che la trasformazione in “totale energia positiva” è una bella favola da manuale, che nella quotidianità spesso non trova concretezza.
Siamo arrabbiati quando la nostra competenza viene messa in dubbio dagli “arroganti da cornetta” con cui spesso facciamo chiamate inutili.
Siamo arrabbiati quando la nostra visione viene ridotta all’inserimento di parametri in un foglio excel che mai nessuno leggerà.

Siamo arrabbiati quando ci trattano come pesci che non si sanno arrampicare.

Il punto sulla rabbia è che è uno dei sentimenti lavorativi più diffusi al mondo. Fra i più negati, fra i più marchiati dall’infamia: perché se sei arrabbiata è colpa tua.
Perché se provi rabbia è perché non sai vedere il lato positivo.

La rabbia ha una sua poesia. Che può fare a meno dei castelli. Che come seta scivola fra le nostre palpebre insegnandoci una sola cosa: la rabbia è uno dei nostri modi per ricordarci che siamo ancora vivi. Magari deboli. Ma comunque vivi.


E che quel lavoro ci piace. Nonostante tutto.
Perché noi non siamo il nostro lavoro. Siamo la parte migliore di quel lavoro che un giorno sarà, magari, meritocratico.
È questo l’unico modo per sopravvivere alla nostra stessa rabbia. Senza che la rabbia si nutra di noi.
Perché dobbiamo ammettere che la rabbia è uno dei motori principali della comunicazione. Perché comunica al mondo che di fronte a ciò che non va, noi abbiamo ancora una visione.
Probabilmente sbagliata. O forse no.

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