03. Inadeguatezza. Un’epopea tutta al femminile.

“Inadeguatezza. Un’epopea tutta al femminile” è il 3° episodio di “intangibile”, un diario dedicato alle emozioni nel campo del lavoro.


Viene per lo più definita come una sensazione, ma per mia esperienza (e non solo mia), l’inadeguatezza è una vera e propria “emozione di barriera, che spunta con la piacevole puntualità di una cartella Equitalia la mattina del tuo compleanno. E anche quella seguente.

EMOZIONI DI BARRIERA SUL LAVORO: COME GESTIRLE?

Con l’espressione “emozione di barriera” intendo quell’insieme di “emozioni lavorative” che fa da muro alle novità: paura, rabbia, tristezza, ansia.
Insomma, il bouquet di quotidianità emotiva che ognuno di noi riceve al trillare della sveglia.

L’inadeguatezza è un sibilo freddo che spesso fa eco all’istinto di conservazione.
L’inadeguatezza infatti non è sempre un male. È un puntiglioso campanello d’allarme che scatta quando veniamo messi di fronte a una nuova sfida. È il segnale che non ci siamo seduti sugli allori. È il riflesso rigoglioso di ciò che potremo essere.

Fino a ora questa è una riflessione facile.
Fino a ora ho parlato solo di quella barriera che la nostra mente alza nel momento in cui ci troviamo di fronte a nuove sfide.
Perché questo è il senso di inadeguatezza socialmente accettato. Quello che ti fa apparire un vincente perché stai accogliendo una nuova sfida. Perché corri più degli altri. Perché sei bravo assai. Più degli altri. E questo senso di inadeguatezza è solo una paura temporanea che viene solo a quelli bravi.

Ecco: e se invece fossi solo un coglione?
Sono la sola a pormi questa domanda (di solito mentre mi lavo i denti)?
Se l’inadeguatezza di cui tutti parlano, correlandola alla sindrome dell’impostore, non fosse altro che un campanello d’allarme per dirti che sei (sono io per prima) un coglione?
Perché nessuno se lo chiede mai davanti agli altri? E perché quando qualcuno lo fa, c’è sempre quel retrogusto di autocompiacimento vittimistico del tipo “No ma cioè, io te lo dico, io sono il più grande fallimento della storia”, lasciato lì per sentirsi dire “No ma zio, tu sei un genio”.

No: tu sei un coglione. Perché in quello che fai sei bravo (non fai ribaltare la gente dalla sedia ma sei bravo) ma hai bisogno di sminuirti per attirare complimenti, lodi e like, l’oro apocrifo di questo secolo.

INADEGUATEZZA: STORIA DI UN’ACCETTAZIONE QUOTIDIANA

Fino ad ora questa è stata una riflessione semplice, lo ripeto. Abbiamo parlato dell’inadeguatezza socialmente accettata.
Quella dei vincenti.

Ma come accettare il senso d’inadeguatezza quotidiano dei non vincenti? Quello che ti sale non di fronte alle nuove sfide, ma di fronte a cose che hai già fatto.
Come ammettere che ti senti non adeguatamente competente di fronte a cose che hai già affrontato e che oggi ai tuoi occhi sembrano diverse?
Lavorativamente parlando, il senso di inadeguatezza è una delle sconfitte professionali più difficili da ammettere. Perché non ha in sé nulla nulla di vincente. Attiva solo circoli poco virtuosi che intorbidiscono pensiero e volontà.
L’inadeguatezza esiste. È solo tempo di accettarla per ciò che è: un’emozione di barriera. Non una barriera vera e propria.
Quando siamo presi dallo sconforto, dalla paura di non saper risolvere cose che abbiamo già visto e che gli altri si aspettano risolte da noi in pochi minuti, semplicemente calmiamoci.
Respiriamo.
Beviamo un bicchiere d’acqua.
Io ad esempio ascolto la Piccola sinfonia in Sol minore di Mozart.

E penso ad altro.
Vizio la mia testa con pochi minuti ozio. Perché lavorare bene non vuol dire essere onniscienti, vuol dire essere affidabili nonostante tutto.

Basta con questo diktat dell’esperto a ogni costo.
Ogni volta che l’esperto perfetto, nel compiere il mitico viaggio dell’eroe (che palle eh con questo eroe che viaggia) inciampa nell’inadeguatezza, la società ha trovato per la sua difficoltà un perfetto termine al maschile, impostore. E ci ha messo sopra la pezza della “sindrome”.
”L’inadeguatezza e basta”, invece, ancora oggi, la decliniamo (quasi) sempre (e troppe volte) solo al femminile. Senza nessuna pezza.

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