La razionalità del male

vacanze italiane 2012

La cosa che più mi ferì, in  piena adolescenza, fu quando per l’ennesima volta fui lasciata senza motivo apparente.
“Non sei tu. Sono io”.
“No sai: lo faccio per il tuo bene”.

QUALCOSA DI PIÙ DOLOROSO DEL RIFIUTO

All’epoca non sapevo bene cosa fosse quel senso di frustrazione che dominava la mia testa (e non solo).
Era qualcosa di ancor più doloroso rispetto al rifiuto stesso. Qualcosa che all’epoca non sapevo ben spiegare.
Così iniziai a tenere un diario “analitico” delle probabili cause per cui poteva essere finita una storia “d’amore”.
Stando a quanto scrivevo, le origini dell’interruzione di rapporto amoroso, all’epoca avevano sempre come comune denominatore l’aspetto fisico.
In tutte le varie analisi adolescenziali in cui mi ero gettata, la mancanza di avvenenza, grazia, bellezza e l’impossibilità di essere conforme ai canoni estetici era sicuramente la causa TOTALE di tutti i i rifiuti.

Finché non accadde una cosa strana. In uno dei miei primi appuntamenti bolognesi, uscii con un ragazzo in maniera ripetuta. Tutte uscite perfette.  Mai nulla di  banale. Sempre una nuova avventura. Tanti gli interessi comuni.
Poi una mattina come, non ricordo nemmeno dove fossi, mi resi conto che era effettivamente tutto bellissimo. Ma a me quella persona non interessava più.
E non era per l’aspetto fisico: poco centravano l’avvenenza o la bellezza.
Semplicemente  non mi interessava più.
E mi resi conto di quanto tempo avevo sprecato, nella mia adolescenza, a cercare di razionalizzare delusioni, stati d’animo e passioni che ben poco hanno a che fare con la logica.
E mi resi conto, che negli anni, avevo sprecato anche i pochi momenti di relax per provare a ricondurre a matrice totalmente razionale ciò che razionale non lo è mai stato.

Riflettere sul male quando sei in vacanza
Thailandia, Ko Pha Ngan, 2019. Andare in vacanza per sperare di poter riflettere

IL LOOP INFINITO DELLA RICERCA DEL COLPEVOLE

La necessità di  chiudere i conti con una determinata storia, per me, era da sempre maggiore rispetto al voler costruire qualcosa di nuovo. Come se il mio cervello fosse bloccato in un loop infinito di autoreferenzialità e morbose ipotesi.

Non ricordavo di aver scritto un diario “analitico” su questo tema fino a che, in queste strane giornate, non ne ho ritrovato un paio di pagine strappate e conservate in una busta di carta ruvida.

E ho ricominciato a riflettere su quella necessità adolescenziale (che forse mai mi ha veramente abbandonato) del dover strutturare razionalmente ogni tipo di esperienza vissuta.
Trovare un motivo alla fine di quelle storie (anche le più effimere) era una sorta di missione in cui il mio cervello mi spingeva con matematica lucidità, al fine di poter procedere alla chiusura di quei “file amorosi”.
Non ho avuto nemmeno il bisogno di aprire la busta di carta ruvida per ricordarmi cosa c’era scritto dentro quelle pagine. Le ricordo come se le avessi scritte pochi minuti fa.
E ci ho ritrovato, in maniera ENORMEMENTE AMPLIFICATA, l’impotenza di questi giorni.

Di fronte a un rifiuto, di fronte a un fallimento o a una situazione difficile il nostro cervello ha la necessità di processare correttamente i dati che compongono la nostra storia, al fine di schematizzare l’esperienza, analizzarla, immagazzinarla e codificarne la fine per poter andare avanti.
La mancanza di un motivo preciso e razionale, la mancanza di una causa precisa e razionalizzabile rende il cervello totalmente incapace di processare l’accaduto.

Da qui si aprono due possibili scenari.

PERCHÈ ABBIAMO SEMPRE BISOGNO DI UN COLPEVOLE?

Nel primo: la ferita rimane aperta. Per giorni, mesi. Spesso anni.
Costruendo insicurezze e frustrazioni totalmente irrazionali nella nostra mente.
Nel secondo, il cervello non riesce ad accettare il fallimento, il rifiuto e/o la situazione difficile e compie dei salti cognitivi impropri per trovare un capro espiatorio (fisico oppure astratto) per chiudere in modo “razionale” l’esperienza dolorosa.

IL TERZO SCENARIO DELLA CACCIA AL COLPEVOLE: L’ACCETTAZIONE

Esiste, in realtà, anche un terzo scenario: quello in cui il cervello ammette la nostra caducità. La nostra totale impotenza.
In questo terzo scenario il nostro cervello ammette che certe cose accadono e basta. Che non esistono carnefici assoluti. Che non sempre il male ha  un piano. Ma molto più semplicemente accade.

E non possiamo farci nulla.
Se non mettere da parte il nostro ego, ridimensionarci e accettare che alcune volte la vita non va come l’avevamo pianificata.
E ripianificare.
Di nuovo.

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